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ESEMPIO PRATICO DEL MODUS OPERANDI DELLA PEDAGOGIA CLINICA
Spesso, parlando della Pedagogia Clinica si usano espressioni quale “porre l’attenzione sulla visione globale dell’essere umano”, facendo riferimento ad un principio molto spesso sottovalutato; a voler fare un esempio concreto:
Se una madre, constata nel figlio una difficoltà negli apprendimenti, come ad esempio la “disgrafia”, rivolgendosi ad uno studio di Pedagogia Clinica, quella madre saprà per certo che suo figlio non verrà ammaestrato a “scrivere meglio” attraverso esercizi svilenti per il bambino, né sarà incoraggiato ad abbandonarsi alla sua difficoltà sopperendo solo ed esclusivamente attraverso uno strumento compensativo (ad esempio l’uso del tablet); al contrario, si lavorerà, con tanto impegno ma anche con tanta ironia, non solo sul singolo sintomo “disgrafia”, ma su tutto ciò che quel sintomo può causare nel vissuto dello studente, come senso di inadeguatezza, bassa autostima, rabbia, ripiegamento su se stessi, mancata motivazione allo studio etc.
Tutte queste emozioni, infatti, possono non essere immediatamente riscontrabili nel vissuto del bambino/a ma sarebbe superficiale credere che non vadano a braccetto con un’etichetta come “SEI DISGRAFICO!”; è a queste emozioni, quindi che va l’attenzione del Pedagogista Clinico (ingredienti perfetti che attimo dopo attimo contribuiscono ad ingigantire, alimentandola, la singola difficoltà immediatamente percepibile e chiamata “disgrafia”). Il dis-agio sarà affrontato sia con metodi e tecniche rivolti al miglioramento della scrittura, ma ancor prima con metodi e tecniche capaci di restituire armonia e benessere a quel soggetto tanto posto sotto i riflettori per un suo demerito etichettante. “Il disagio sarà trasferito ad altre parti dell’individuo, parti capaci di trasformare il dis-agio in agio” vale a dire che la difficoltà chiamata disgrafia sarà trasferita non alla rabbia ma alla forza di volontà, non ad una scarsa autostima data da una percezione di sé non al pari degli altri, ma alla caparbietà e così via. Si andrà a lavorare, in modo inconsapevole e naturale per il bambino/a, su tutti quegli aspetti capaci di supportare la difficoltà, affinché essa venga percepita come superabile, riattivando quella motivazione intrinseca capace di muovere qualunque essere umano ad ingegnarsi per ottenere ciò che vuole. Sarebbe tutto questo possibile rifugiandosi unicamente in un tablet (strumenti compensativi) o nella somministrazione di schede pedagogiche che chiedono al bambino di continuare a fare (per addestrarlo) quell’unica cosa che non sa fare e odia fare (scrivere)?
Un soggetto disgrafico è già costretto a far i conti con la sua più grande difficoltà per ben 5 ore al giorno, sotto gli occhi giudicanti di almeno 20 persone. Come ci sentirebbe (mi rivolgo ad un adulto) all’idea di non essere capace di fare una cosa “ovvia e scontata” per tutti coloro che ci stanno attorno, dovendoci tuttavia provare e riprovare ogni singolo giorno e fallendo continuamente sotto gli occhi di tutti, umiliandoci incessantemente? Gli esseri umani, piccoli o grandi che siano, sono esseri globali, ove ogni cosa cammina a braccetto con l’altra, e questo la Pedagogia Clinica lo sa bene; ecco perché oltre che al sintomo, si cerca di portare in evoluzione tutte le peculiari caratteristiche del soggetto richiedente aiuto.